Albero vento mare stelle e altri

L’autore

Morteza Latifi Nezami è nato a Tehran (Iran) nel 1943. Si è laureato presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Dopo il corso post-laurea di Restauro Conservativo a Firenze, si è diplomato in Pittura presso l’Accademia di Brera di Milano. Ha vinto diversi premi di pittura e ha pubblicato: Inospitale terra promessa (racconti), La Meridiana 2011; Quando giunse a termine la gentilezza… (poesia), Edizioni Joker 2013; Il tempo è scaduto (romanzo) Gruppo Albatros il Filo 2014; La luna perduta (romanzo), Gruppo Albatros il Filo 2016; La favola dell’uomo (poesia) Edizioni Joker, 2017; Dietro le mura nere della notte (poesia) Edizioni Joker, 2019. Ha curato e tradotto Canta nel nome della rosa rossa. Sette poeti persiani del Novecento (Edizioni Joker, 2017).

I testi

L’haiku è diventato fenomeno di moda, anche in Iran, ma secondo Morteza Latifi Nezami è da considerare poesia solo per le popolazioni dei paesi dove è nato, perché esprime nella sua apparente semplicità l’essenza dell’anima poetica giapponese, mentre in altri territori la poesia ha avuto significati e ruoli diversi nella società nel suo complesso oltre che negli ambienti letterari. L’autore non si è sottratto al fascino degli haiku, componendone più di sessanta pur senza seguire la regola di tre versi formati rispettivamente da cinque, sette e cinque “more”, componendo quindi, come molti altri, degli haiku “moderni”. Meditando sulla poesia persiana però è giunto a una conclusione interessante, individuando nella sua tradizione culturale e poetica un tipo di poesia simile, esistente da secoli: le quartine. Secondo Latifi Nezami lo haiku è espressione di un bellissimo sentimento poetico ma non è una poesia, perché descrive un contenuto poetico senza concluderlo, mentre la quartina lo porta a conclusione. Così ha mutato i suoi haiku in quartine, naturalmente libere, ritrovando le radici della poesia persiana.

Morteza Latifi Nezami

Albero vento mare stelle e altri

ISBN-13: 978 88 7536477-9

2021

pp. 168

cm 15*25

€ 16,00

Jacint Verdaguer

 

Il calice e l’arpa

 

Mille pegni d’amore

m’ha donato Gesú,

mille pegni d’amore,

due di valore sommo.

M’ha dato d’oro un calice,

d’oro e d’argento un’arpa;

un calice celeste

per bere del divino

suo cuore il santo sangue

che dal costato sbocca.

Bevuta una sorsata,

mi metto a suonar l’arpa,

cantando a terra e cielo

l’amore che mi ubriaca.

Agli altri non aggrada

ch’io sia tanto felice;

m’han tolto d’oro il calice

che la mia sete spegne,

sete d’amor divino

che mi consuma l’anima.

M’han tolto d’oro il calice,

tòrre mi voglion l’arpa,

eco d’arpe celesti,

che ogni notte mi parla;

amor dei quindici anni,

compagna di vecchiezza,

del mio cuore la sposa,

dello spirto sorella.

Tenete d’oro il calice,

ma lasciatemi l’arpa;

lasciate che la suoni

prostrato ai piè dell’ara,

mentre bevete il Vino

della vite a Dio sacra,

tra le luci e l’incenso,

degli angeli alla mensa.

 

 

 

Joan Maragall

 

In morte di un giovane

 

Ti dileguasti in quel dolce tramonto…

Cadesti, atleta, ingaggiando la lotta.

Sorridevi alla forza dei tuoi muscoli,

sognavi guerre e corone di gloria,

e d’improvviso stramazzasti a terra

con gli occhi stupefatti…

 

O Morte, come rendi tutto bello!

Quando lanciasti quel tuo primo velo

sopra l’eroe fiorente, sorridemmo

frenando il pianto, perché una gran pace

s’era diffusa sopra il viso e il petto

del moribondo. Soavemente andava

e veniva il respiro, e speravamo…

Ma non tornò… Allora si levarono

alti pianti per lui che più non c’era…

Sui campi era dolcissimo il tramonto…

 

 

 

Josep Carner

 

C’erano tra noi due

 

C’erano tra noi due tante rose sbocciate;

la furia dell’amore le ha tutte strapazzate.

 

Lo schioccare dei baci intimorì gli uccelli;

si tacquero i più dolci, fuggirono i più belli.

 

Lasciavamo alle spalle l’umile gente morta,

uccisa dalla stessa corrente che ci porta:

 

i giorni a volte d’oro e di cielo colmati,

da noi vòlti alla terra mai furono guardati.

 

 

 

Salvador Espriu

 

Vorrei dirlo con labbra di vecchio

 

Con sofferenza vidi. Più non ricordo il mare.

Sono gli ultimi solchi; dopo verrà il deserto.

Sotto cieli purissimi, ascolto come il vento

dice il nome che porto, il nome mio: «Nessuno».

Verrà il riposo e mi apparto a guardare

l’ultima volta il vasto tramonto luminoso.

Poi senza alcun timore partirò tutto solo

per la notte di Dio, tra la sabbia e la sete.

 

 

 

Vicent Andrés Estellés

 

Domani sarà una canzone

 

Lento e triste animale, fatto di rimembranze,

più non vivi, soltanto ricordi. E che cosa?

Che una volta vivesti. Dove? Da qualche parte.

Felicità suprema, l’ora di scriver versi.

Non i versi scheggiati e svelti che scrivevi,

ma i versi solenni – solenni? – del ricordo.

Ed osi ricordare, col lusso di un paesaggio,

i sedili del cine, il film che proiettavano

di cui naturalmente non vi importava nulla;

l’Albereda ripensi e le rane del fiume,

i banchi che spuntavano il giorno del mercato,

Valenza illuminata di notte a S. Giuseppe,

e voi su quel terrazzo intenti a far l’amore.

Lento e triste animale, fatto di rimembranze,

rievochi e ripensi le carni fresche e dolci,

sopra cui le tue mani posavano o i tuoi baci,

il gusto degli scherzi delicati e vivaci,

le tegole dei tetti, rugginose, con l’erba

che cresceva adorabile qua e là negli interstizi.

Lento e triste animale, fatto di rimembranze.

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