Cento uomini nell'alambicco

L’autore

Franca Macchello è nata a Novi Ligure nel 1953.
È al suo secondo libro autobiografico, dopo Tre quaderni, 48 ore (Joker, Novi Ligure 2020).
Sempre attenta a descrivere le emozioni che cerca dentro di sé, e trova nella natura dell’Alta Val Borbera così come in quella della pianura alessandrina, scrive di amore e coraggio con la passione che la denota.

I testi

Storie raccontate, storie di uomini amati. Alcune possono apparire romanzi a cui è stato imposto un bavaglio affinché di un romanzo ne riducesse il peso, altre fin troppo raccontate perché a volte l’anonimato, imposto da chi racconta, non permette di meno. Sei storie, ricavate dalla distillazione con l’alambicco sentimentale, solo sei delle ’cento’, quelle da cui affiora olio essenziale purissimo, prezioso e profumato, ricordi vividi, mai sbiaditi nonostante la distanza temporale. Storie vissute tra la Val di Susa e la campagna Novese, alcune estese a borghi toscani e Appennino bolognese, altre nella sempre amata Alta Val Borbera passando per Genova e Alessandria. Varietà di luoghi così come unicità di uomini e passioni che hanno animato ognuna delle sei storie.

Copertina - Cento uomini grande 72

Franca Macchello

Cento uomini nell’alambicco

ISBN-13:978887536462-5

2020

pp. 128

cm 13 x 20,5

€ 15,00

La sua baita era piccola, su un unico piano, rialzato di poco meno di un metro dal livello del suolo. Era stato un riparo per pastori dalla data di duecento anni prima. Aveva dovuto rifare tutti i supporti per il pavimento e anche un isolamento tra le tavole calpestabili e la nuda terra con un sistema innovativo da noi allora sconosciuto che si chiama “igloo”. I muri perimetrali erano ancora intatti, di pietra, ma lui aveva deciso, a scapito di un po’ di metratura, di foderare tutto l’interno con il legno antico di una baita gemella crollata appena prima che lui acquistasse la sua e che in seguito sarebbe diventata una parte del suo vivaio. Il tetto era stato completamente rifatto con tutti i crismi di isolamento termico e i rettangoli di porta e finestre ingranditi rispetto all’originale. Si accedeva all’interno tramite l’unica porta esterna che apriva sul soggiorno dove troneggiava la stufa e in cui era stata attrezzata una parete a funzione di cucina con fornelli, lavello, elettrodomestici e piano di lavoro. La parete opposta a quella attrezzata a cucina era tutta riempita di libri, assomigliava al telaino di un alveare, pareva che fosse stata presa la misura esatta di ogni singolo volume per poi collocarlo a stretto contatto con tutti gli altri senza nemmeno il vuoto di un millimetro sia in verticale che in orizzontale, tanto che subito mi era sembrato un trompe l’oeil, era bellissima da vedere. Della stessa metratura del soggiorno-cucina, ma divisa in parti disuguali, la restante parte della casa comprendeva il bagno e la camera da letto. L’insieme era raccolto e semplice e adesso che la stufa scaldava conversatori e cane mi sembrava di essere in una casa di pionieri dell’antico west, ma qui non c’erano tappeti rotondi per terra e, al posto di un camino circondato da pietre arrotondate, la grande e moderna stufa dava modo di non sbagliarsi: si era quasi alla fine del ventesimo secolo. Avevo messo nello zaino un pigiama di flanella molto pesante che indossai in bagno, Ludovico mi concesse di usarlo per prima. Non ero per nulla a disagio e questo era merito suo, infatti, anche se mi aveva fatto capire come potevano andare le cose sotto le coperte del suo letto, non aveva insistito con sguardi maliziosi, e men che meno con parole insinuanti; era tutto estremamente naturale, quasi come se fosse ovvio che io fossi lì e che non ci fossi per la prima volta. A quell’epoca avevo splendidi capelli lunghi, colorati con una qualità particolare di henné che potevo trovare solo in un’antica farmacia in piazza Vittorio Veneto a Torino. Oltre a una straordinaria e indefinibile tonalità di colore, donava setosità e un piacevole profumo di tè ai capelli. Ludovico non fu insensibile a colore, setosità e profumo, e il gesto di dare a essi una carezza fu quello che ci avviò verso una nottata piena di passione. Stavo così bene in quel posto, accanto a Ludovico, che pensai che di lui avrei anche potuto innamorarmi. Avevamo tantissime affinità, sicuramente nessuna condivisa dalla maggior parte delle persone della nostra età, laggiù, a valle. Recuperammo il tempo speso bene durante la notte, la mattina successiva. Buc non “assistette”, se ne andò in soggiorno non appena capì che di carezze per lui non ce ne sarebbero state quella sera. Ludovico mi disse che faceva sempre così le rare volte che una ragazza dormiva con lui, ma la mattina dopo balzò sul letto mentre le nostre voci ci auguravano un buongiorno reciproco. Era una giornata stupenda di metà maggio e uscendo, ancora in pigiama, lo spettacolo che mi si presentò non mi portò nel vecchio west, ma su di un’alpe, di quelle frequentate da Heidi. Una meraviglia! Avevo conferma di aver capito il perché della scelta da parte di Ludovico di vivere in quel posto. Per gente come noi, che non si spaventava davanti a un inverno più rigido del solito, né per il disagio di come arrivare fin lassù con la neve, non poteva esserci nulla di più attraente di quel luogo. L’esposizione della casa era eccezionale, al sole tutto il giorno e anche il vivaio, poco distante, era stato studiato in modo intelligente affinché avesse un’esposizione consona alla sua funzione. Ancora una volta in cuor mio elogiavo Ludovico per la bellezza della sua scelta. Partimmo per una camminata con un pranzo al sacco preparato con degli ottimi salumi, formaggi e pane acquistati da lui il giorno prima a Torino, borracce piene e Buc a farci strada. Lassù di primizie vegetali primaverili non c’era nemmeno l’ombra, anzi, in alcuni punti dove non batteva mai il sole, c’e-rano ancora grandi quantità di neve gelata e, anche adesso che il sole dell’una picchiava forte, la giacca a vento non guastava. Ludovico aveva previsto tre ore di cammino tra andata e ritorno, infatti all’incirca all’una e mezza fummo nel posto dove voleva condurmi. Era l’alpeggio dove da lì a qualche settimana un suo giovane amico allevatore, con moglie, figli piccoli e mandria, si sarebbe trasferito fino a metà settembre. Si aiutavano a vicenda, a volte Ludovico andava a prendere il loro formaggio per portarlo a valle e altre volte il suo amico, mentre pascolava le mucche, raccoglieva per lui preziose sementi. Aveva la chiave dell’alpeggio, dentro c’era odore di selvatico e di formaggio, ma fu piacevole accendere la stufa e pranzare al caldo anche se lasciammo porta e finestre spalancate da cui entrava un bel sole. Tornammo a casa che iniziava a rinfrescare per davvero, e per fortuna trovammo ancora una bella brace viva nel focolare della stufa, pronta a ridare il giro di un’altra notte al suo incandescente contenuto. Bastò aggiungere dei bei ciocchi e riprese a scoppiettare. Cucinammo una zuppa valdostana con del formaggio stagionato del suo amico al posto della fontina, e con i cavoli del suo orto di montagna che poco altro produceva oltre a patate, bietole e fagioli. A lui bastava e comunque disponeva di una motoslitta per cui anche in inverno, finché l’altezza della neve lo consentiva, riusciva a rifornirsi nei paesi sottostanti, e quando il livello si alzava troppo, andava a passare i mesi peggiori a valle, dal suo amico allevatore che, in cambio di vitto e alloggio, gli offriva lavoro a governare le mucche nelle stalle e a fare i mercatini del biologico a Torino, dove vendeva i suoi formaggi. La zuppa era buonissima e ci bastò. […]

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