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Nel panorama della cultura
romena attuale, Marta Petreu (1955) è senza dubbio una
figura di primo piano. Personalità culturale organica e
complessa, docente e studiosa di filosofia romena, redattore
di un importante mensile culturale, saggista e romanziera,
Marta Petreu è e resta in primo luogo, intimamente ed
essenzialmente, poeta, una delle più intense e
autentiche voci poetiche romene degli ultimi decenni.
Al centro della sua poetica si trova, bruciante e violento,
il problema del male, la flagrante incongruenza tra
la presenza innegabile e ineludibile del male nel
mondo e l’assenza di azione in esso da parte di Dio,
la cocente impossibilità di riconciliare l’esperienza della
sofferenza fisica e psichica, il dolore materiale del
corpo e lo spasimo intangibile dello spirito, con il dogma
della natura misericordiosa e amorevole di un Padre che si
dimostra al meglio assente e obliatore, al peggio crudele e
capriccioso. Cronaca eretica e ribelle di un’Apocalisse che
non è evento ma condizione, la sua poesia scabra e
inclemente è un’incisione nella materia viva del corpo che
mette a nudo, con feroce tenerezza, la carne pulsante del
dolore e del desiderio.
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Storie per
la domenica
Che domenica innevata si mostra nella camera con le sbarre
dipinte di verde (imitazione quasi perfetta
di tralci di vite)
E la giovane signora
che si guarda nel ritratto argentato
di cinque anni fa: che bellezza
da portare in giro su un cuscinetto di velluto
Poi sono arrivati i carri da guerra i trattati dotti
l’era glaciale l’amore di nascosto in fretta e furia
le insonnie gli aborti clandestini le glasse dolci
Tante battaglie minute e quotidiane
tanta ingegnosità sprecata per un posto
in un cimitero periferico
tanta scienza per un semplice biglietto
per passare Aldilà: un centimetro cubo d’aria nella vena
cava
Oho! che donna mancata che montagne di neve usurata
nella camera con le sbarre
(su un tappeto rosso giacevano un tempo le poesie:
più vere delle notti d’amore
più fresche più tentatrici
di un corpo di maschio)
Il suo pensiero fila sillogismi – un sangue di gatto
mi ribolle nel cervello:
tutte le storie si decidono di notte
in una totale impudicizia della mente
* * *
L’Apocalisse secondo Marta
Lui il mio angelo è venuto e mi ha detto:
ecco il tempo è vicino –
quindi puoi afferrare Dio per un piede
per il suo stivale dotato di sperone
per il suo stivale di marocchino che adorna cuscinetti di
porpore;
è tempo di aprire il libro grande il libro nero
Io marta Suo servo ho pensato:
posso afferrare Dio per un piede
per il suo stivale con lo sperone
posso toccargli almeno il dito mignolo – possiede la Forma
perfetta
Sì. È giunto il tempo – dico
Posso toccarti lo stivale la gamba il piede dai calli
infiammati
posso tastare almeno il tuo dito mignolo storto
martoriato – come in calzari presi a prestito
un piede mortale
Io marta Suo servo sulla terra
Con le mani screpolate dal freddo dalla liscivia
io marta tuo cagnolino sulla terra
ti ho abbracciato entrambe le gambe
con i miei capelli corti ho spazzato i tuoi calzari
Ti ho toccato. Ho fatto ciò che c’era da fare.
Quindi rendo testimonianza
Quindi rendo testimonianza:
puzza di stalla. Puzza di lercio. Puzza greve eterna di
sudiciume.
Puzza di macello. È un fetore di carne cruda
lacerata da speroni schiacciata sotto i tacchi
Come semi di mela i lattanti spezza tra i denti
Puzza di carne viva che muore puzza acre di latrina
Che fetore o Signore che fetore pesante
e antico
dal primo giorno del tuo regno
(ma il giorno della cacciata dal Giardino?)
Che effluvio di morte antica e fresca che effluvio di morte
eterna ti circonda
che stivali consunti sfondati porti tu o Signore
E che gambe che piedi elefantini
piene di pustole di calli di bava
Cosa sei? – ti domando
Come l’incenso nelle chiese
ai piedi del tuo trono celeste aleggia
la nebbia rossa di sangue ronzano sciami di mosche verdi e
grasse
gonfie come pavoni
Hai gli stivali rotti in crociate divine
e lucidati con crema di cervello
dai tuoi speroni penzolano resti di intestini brandelli di
carne
Così come di notte sulla mia guancia scorrono rivoletti
freddi di lacrime
a te o Signore
vermi ben pasciuti brulicano tra i calzini cenciosi
(Sì. Sei unico. Per questo faccio atto di sottomissione?
Davvero non saprei.
Oh. Il giorno della cacciata dal Giardino)
Cosa sei tu, Domine? domando
e tremo di furia e ribrezzo. Lontano un chilometro
le tue zampacce fetono
di strumenti di tortura di segreta. Cosa sei tu, Domine? Ho
la nausea
Lui Abaddon il mio angelo il mio volatile domestico
è venuto e mi ha detto: ecco il tempo è vicino
puoi afferrare Dio per un piede
puoi lustrargli la scarpina
Io Marta il suo cane sulla terra:
l’ho spazzolato. L’ho toccato. Gli ho parlato.
Ho fatto tutto ciò che c’era da fare. Ora rendo
testimonianza:
in questo perpetuo macello
di creature viventi lucide e parlanti
lui il Padrone smania per la razione di osanna la porzione
calda
d’incenso: schiuma di sangue
Lui stesso – Forma perfetta dell’esistere – è come
l’accalappiacani in agguato
Lui il Padrone è il Macellaio
è l’Accalappiacani
* * *
Non più
amante il cuore
Mute sono le grandi opere della creazione
silenziose – le cose
nulla più parla
Un sole bianco come una luna di cartone
un sole da due soldi illumina il paesaggio
questa distesa crollata in sé
Una cosa da nulla è anche il mio cuore non più amante
Per la tenebra per il male si dischiude esso al calar della
morte
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